Non è dato sapere se i cinghiali sono tanti perché in realtà non esiste un censimento scientifico, è spesso l’opinione di molti cittadini a creare il numero. Da questo a raggiungere la quota di sovrappopolamento il passo è breve.
Gli incontri degli enti preposti, dal Prefetto alla Regione Lazio, alla ASL, dalla Forestale al Parco di Veio, alla Polizia Municipale, non sono approdati a un meccanismo di contenimento congiunto ma intervengono, per comodità, con la cattura e soppressione dell’ungulato.
Ovvio che i cinghiali non possono difendersi, che non potranno mai sedersi alle tavole rotonde per decidere la loro sorte e allora ecco che improvvisamente i loro diritti non esistono.
Ma il cinghiale ha dei codici di vita, ha una struttura familiare fortissima. Sono animali con un grande senso della famiglia. Soltanto il maschio adulto girovaga solitario ma i piccoli si muovono, invece, in branco con una o più figure materne, dette scrofe, a proteggerli.
Siamo noi a distruggere questo vincolo familiare, a sfaldare l’assetto di un sistema che in Natura funziona perfettamente. Gli animali, meglio di noi, riescono a crearsi un loro habitat e di conseguenza un equilibrio a noi ignoto.
Ma scaviamo in questo ambiente, non soffermiamoci alle solite costruzioni di massa per cui un cinghiale è un animale aggressivo e pericoloso. Certo, lo può essere ma solo se si sente braccato. E chi non lo sarebbe?
Affermiamo pure che l’unica colpa del cinghiale è di essere la preda prediletta dei cacciatori e quindi anche che i responsabili del presunto sovrappopolamento e dello stato errante dei piccoli è proprio di questa cittadinanza col fucile in mano.
Inizia tutto con l’introduzione in Italia, da parte dei cacciatori, dei grossi e prolifici cinghiali centro europei, quindi di una razza manipolata che ha contribuito a far scomparire l’autoctona scrofetta .
Questo fattore che sembra marginale è in realtà la causa principale delle tante nascite. Infatti la Sus Scrofa, geneticamente modificata, non si riproduce una sola volta l’anno, ma ha un estro maggiore, e arriva ad avere nel giro di pochi mesi anche tre cucciolate. E questo di conseguenza ha diminuito anche le disponibilità alimentari che gli animali trovavano in Natura.
Ora, il cacciatore, il cui obiettivo è l’attività venatoria, non contento del danno arrecato all’equilibrio perfetto degli ungulati, quando caccia non si domanda quale membro della famiglia uccide. E guarda il caso, spara alle femmine adulte, quelle stesse scrofe che dovrebbero essere la guida dei piccoli, fornirgli cibo e tutelarli.
È ovvio che quando il capobranco non c’è più, la paura e la fame spingono i cuccioli anche verso le zone abitate, soprattutto se, in questi centri, si lascia in giro cibo abbandonato o, peggio, pensando di sfamare l’animale, lo si abitua a una ciotola.
Se il cacciatore vuole un maggior numero di esemplari da abbattere dovrebbe anche accollarsi tutti i risvolti negativi di quanto lui stesso ha creato. Invece cosa succede nel mondo reale?
Che il cacciatore è l’unico a poter ridurre il numero di questi animali pericolosi e che dobbiamo essergli grati per il mestiere che svolge.
A caccia avviata e con l’uccisione delle mamme, i piccoli diventano erranti, si spostano spaesati e senza una meta vera e propria.
È la mancanza di fonti trofiche naturali a far sì che il cinghialetto si spinga verso luoghi che non avrebbe nemmeno valicato.
In questo senso i campi coltivati a mais, grano e orzo vengono depredati, e qualche automobilista o, peggio, motociclista resta vittima di un incidente provocato dall’attraversamento improvviso di un cinghiale.
Ma la domandiamoci: è il cinghiale a danneggiare il nostro abitato o sono i cacciatori ad aver danneggiato lui e il suo microsistema?
A confermare che un abuso esiste è uno studio scientifico condotto dalla biologa Sabrina Servanty che ha messo a confronto per un periodo di 22 anni due diversi territori, uno soggetto a caccia intensiva e l’altro no. Ne è emerso appunto che la caccia provoca la perdita di sincronizzazione dell’estro con le femmine facendo aumentare così la fertilità e di conseguenza le riproduzioni.
La cosa più giusta da fare è innanzitutto accertarsi tramite un censimento dell’effettivo numero di esemplari in circolazione. La Line Transeact ,intanto, viene indicata dall’Ispra come un metodo valido per contattare, tramite una termo-camera a infrarossi, le unità presenti nelle zone a rischio.
Inoltre esistono delle leggi che andrebbero applicate e che tutti gli enti tendono a sotterrare per non avere problemi né con i cacciatori, né con i cittadini infastiditi dalla presenza degli animali intorno casa.
Esiste l’Art.1 legge 157/92 che definisce la fauna selvatica come patrimonio indisponibile dello Stato posto sotto tutela nell’interesse della comunità nazionale ed internazionale; ed esiste la legge n. 189 del 20 luglio 2004 che punisce il maltrattamento degli animali a prescindere dal contesto in cui il maltrattamento avviene.
Queste due leggi, se applicate chiarirebbero che i cinghiali fanno parte di una fauna protetta, che non possono essere considerati di proprietà dei cacciatori ma di ogni singolo cittadino e che, se pure la n. 157 dell’11 febbraio 1992, autorizza alla loro caccia, non è permessa alcuna crudeltà sull’animale catturato, pena l’invalidazione della legge 157.
Il problema del presunto sovrappopolamento si ripresenta ogni anno: è quindi un obbligo morale contenerlo con dei metodi che abbiano un’etica di base.
Una volta accertato il numero effettivo dei cinghiali riguardanti un territorio e una volta applicate le leggi che tutelano il cinghiale, incolpevole di un fenomeno creato dagli uomini, bisogna ritrovare l’equilibrio.
Esistono diversi metodi di contenimento delle crescite e anche dell’errantismo. La verità è che devono trovare terreno fertile tra le istituzioni, spesso incapaci di collaborare tra loro e trovare i fondi.
Ad esempio si potrebbe adottare una campagna di sterilizzazione , basterebbe che la Regione di competenza attui la delibera di giunta regionale, DGR 6 giugno 2006 n 320, che ne prevede l’incentivazione. Un metodo alternativo che sta avendo molto successo in tanti paesi europei.
Per evitare che l’animale, ormai spaesato, non sappia più distinguere la differenza tra bosco e centri abitati è opportuno ricostituire il suo habitat reintegrando, laddove è previsto dai piani faunistici, quello di cui ha bisogno, dal cibo agli insogli artificiali.
Ci sono dunque dei metodi già sperimentati e che restituiscono agli animali il bosco e alle persone i centri abitati. Perché allora in alcune Regioni sembra di così difficile attuazione?
Sarà forse perché la Caccia è un’attività che mette in piedi un giro di affari a cui qualcuno non riesce a rinunciare?
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