A mio avviso direi piuttosto la prima. Siamo quasi nel 2022, il mondo selvaggio in cui l’uomo conquistava territori alla natura è finito. Non c’è più un granché da accaparrarci: volpi, istrici e cervi investiti sulle strade sono all’ordine del giorno nei contesti rurali e non. I pochi esemplari rimasti sono vestigia di un passato che è finito, il mondo è nostro. D’altronde dove dovremmo metterci in 8 miliardi di esseri umani (negli anni 50’ eravamo 2,5 miliardi)? O loro o noi. Con tristezza ma realismo.
Però.
Se il mondo è nostro come mai i residenti delle metropoli rischiano di venire attaccati dai cinghiali quando portano il cane a passeggio o vanno a buttare i propri rifiuti ai cassonetti?
Il proliferare dei cinghiali, passati da una popolazione stimata di 900 mila capi in Italia nel 2010 ai quasi 2 milioni di oggi (+111% *fonte Cia), crea inoltre gravi danni milionari all’agricoltura (circa 50-60 milioni di euro l’anno) e non solo.
Come è possibile che ce ne siano tanti, sempre di più?
La colpa è dell’assenza dei lupi, additati, per generazioni, come specie “cattiva” e ormai quasi debellata dall’uomo?
Non solo: la colpa principale è dei cacciatori? Analizziamo i fatti.
Molti, in modo semplicistico, vedono una soluzione proprio nei cacciatori, ironizzando su quanto starebbero bene i cinghiali nel proprio piatto di pappardelle.
Il WWF smentisce. Ecco i motivi per cui secondo alcuni esperti che citeremo, ogni volta che un motociclista in centro a Roma muore perché sbuca un cinghiale all’improvviso a tagliargli la strada, la colpa è dei cacciatori.
I cinghiali nostrani sono estinti. Se li sono mangiati tutti i nostri nonni. Sulla pelle dei cani spesso sbranati e ricuciti malamente oltre che imbracciando con poco coraggio un fucile.
Ecco dunque, per far fronte a questa estinzione, entrare in gioco il cinghiale ungherese (introdotto in Italia esclusivamente per fini venatori) che ha una taglia anche tripla rispetto al piccolo maremmano, e la cui prolificità è quadruplicata, sfornando carovane grufolanti di dodici cinghiali più volte l’anno. Trattasi di taglie molto grandi incrociate con maiali e scrofe che rendono più “succulenta” la caccia.
Un tempo invece il cinghiale in Italia era autoctono e presente in pochissime zone ma è totalmente scomparso, anche dall’arco alpino.
La presenza storica sul territorio nazionale ha subito una costante diminuzione a partire dalla fine del 1500 sempre a causa dell’accanimento dell’attività venatoria. Nel dopoguerra scomparvero le ultime popolazioni ad est della penisola. Negli anni 50’ , quando la presenza umana è andata accentrandosi nei centri urbani, si è osservato un drastico aumento delle immissioni, inizialmente di esemplari catturati all’estero e successivamente anche di individui allevati sul territorio nazionale.
Con la legge n. 221 del 28 dicembre 2015 è stata vietata l’immissione di cinghiali su tutto il territorio nazionale, fatta eccezione per le aziende faunistico-venatorie e per quelle agri-turistico-venatorie adeguatamente recintate. “La comparsa, però, di nuove popolazioni in territori in cui l’immigrazione spontanea è da escludere a causa della conformazione geografica, è un chiaro indicatore che il fenomeno delle immissioni è lungi dall’essere eradicato” (*pubblicazione dell’ISPRA) “molte amministrazioni avevano autorizzato, o addirittura attuato direttamente, nuove immissioni di cinghiali a scopo di ripopolamento.”
Inoltre, vengono concesse con grande facilità le autorizzazioni per instaurare nuovi allevamenti sui quali non viene effettuato alcun controllo.
Infine, “le modalità per la maggior parte degli abbattimenti (la braccata con cani da seguito) destrutturano le popolazioni risparmiando gli individui più giovani che tendono ad apportare più danni alle colture di quelli vecchi.”
Il professor Andrea Mazzatenta (docente alla Facoltà di medicina veterinaria dell’Università di Teramo), spiega chiaramente come i cinghiali si organizzino: “In una società matriarcale, in cui ogni famiglia è comandata da una femmina, la ‘matrona’ o matriarca, madre di tutti i componenti (tranne i maschi maturi, che vengono allontanati dal gruppo). La matrone emette un feromone che blocca l’estro delle altre femmine: è lei l’unica che si riproduce, ma è anche quella che è più a rischio per la caccia, perché negli spostamenti mette al sicuro i piccoli e tutti i componenti del gruppo e finisce per esporsi di più ai colpi dei cacciatori. Se viene uccisa, però, il blocco scompare e tutte le altre femmine vanno in estro. Risultato: se prima la matrona aveva solo 5 o 6 cuccioli, poi le sorelle finiscono per formare gruppi di 50 esemplari”. In sostanza I cacciatori uccidono la mamma, l’unica del branco che può entrare in calore, essendo la struttura del gruppo matriarcale. Le cucciole e le altre femmine si sparpagliano, diventano capo branco e vanno tutte in calore, moltiplicando così la popolazione.
Il cacciatore spara in casa dei cinghiali facendogli percepire quel luogo come non più sicuro, quindi migrano. Cacciati da casa loro, i cinghiali scendono più a valle e incontrano temperature meno rigide e più cibo, per via delle coltivazioni. Quindi non c’è la selezione naturale provocata dal freddo e dalla scarsità di cibo.
Poi ci sono i cacciatori che foraggiano i cinghiali, sostentandoli e facendogli prendere familiarità con gli umani e facendogli capire che giù c’è cibo così da poterli avvicinare con più facilità durante le battute di caccia.
Innegabili comunque i danni che i cinghiali possono causare alle colture. Vi sono infatti associazioni , come il WWF, che forniscono reti elettrificate gratuitamente agli agricoltori. Si possono contattare le sedi attive nelle proprie regioni per maggiori informazioni. Sui loro comunicati si legge:
“La questione cinghiali in Italia è il frutto di una pessima gestione faunistico venatoria, con approcci sbagliati conditi di retorica e facile demagogia: pensare che tutto si possa risolvere aumentando la pressione venatoria sulla specie vuol dire non prendere atto che tale problematica è stata creata dal mondo venatorio con le scriteriate immissioni di cinghiali provenienti dai Paesi dell’est Europa degli anni passati e che aumentare i periodi di caccia ha il solo risultato di aggravare il problema, come ormai la maggior parte del mondo scientifico che studia l’etologia della specie ha dimostrato”.
“La modifica della Legge sulla caccia richiesta da Coldiretti e prospettata dal mondo venatorio e da numerosi esponenti politici non è quindi una soluzione e rischia di essere solo una facile scorciatoia che, senza dare alcun contributo reale alla soluzione del problema, può generare ulteriori gravi danni a tutta la fauna selvatica attribuendo un ruolo pubblico a soggetti privati con un palese conflitto di interessi”.
Aggiungo che la vera soluzione passa solo da un’informazione trasparente a servizio dei cittadini che potrebbero altrimenti giudicare con facilismo l’emergenza, che i pochi o tanti cacciatori rispettosi degli equilibri del mondo faunistico non bastano purtroppo a compensare i danni causati dai troppi cacciatori che ci hanno e ci continueranno a mettere in questa situazione di triste contrasto con la natura ponendo l’uomo in cima a torri dalle quali dovrà buttar giù specie di animali che lui stesso ha fatto forzatamente fatto salire su quella torre insieme a lui. Per egoistico diletto, non certo per fame.
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